Convergenze parallele


Ci sono amori che nascono in una follia uterina e altri che crescono da bonsai a baobab senza averne la percezione. I primi hanno un metabolismo accelerato, la pelle brucia, i corpi sono animali e le menti chimiche. I secondi sono pacati e il giardiniere che li coltiva passa il suo tempo meticoloso a tentare talee miracolose. Sono diversi ma entrambi hanno un passato. Lui è un copy, non più Peter Pan, ma indeciso se incapace di volare di nuovo o semplicemente impossibilitato ad atterrare. Lei una donna che rampa e ringhia, sorride e si acciotola. Lui scrive poesie, lei racconti. Entrambi amano le parole più del loro stesso suono, più del loro stesso colore. Hanno figli di età spalmate e non saranno il genitore dell’anno, nessuno dei due. Entrambi hanno un famelico bisogno d amore. Questi loro, singolarmente presi. Loro presi insieme nascono per sbaglio, per quei contatti che solo la rete o il caso rendono possibili. Nascono in una specie di appuntamento al buio che è reso meno buio dalle voci, dalle fotografie, dalla curiosità. Sono partoriti dal loro passato, masticati, digeriti, addomesticati e chiusi. Non è colpo di fulmine, non è pazzia di odori, non è un rullo compressore che spazza e spezza. Il passato, che è sempre ricordo, che talora è dolore, non si cancella in un secondo, a volte. Si rifugia nel sogno delle possibilità, ma rimane. Nascosto e impertugiato, come giornalini proibiti nascosti nel sottofondo di un cassetto: prima o poi l’anima madre li recupererà. Erano entrambi belli, ciascuno a modo suo; entrambi particolari, sicuri di un odore forte e di un sorriso ben usato. C’era del piacere nelle loro vite, mancava –invece- l’amore, quello grande, insindacabile.  Fu tutto molto veloce: senza isteria, ma veloce, ricco di un’attrazione violenta a pelle. Calamite, istinto che induce a cercare, a toccare, a scrivere, a mangiare. Mangiare i corpi, mangiare i pensieri, mangiare le azioni. Goderne. Fecero sesso in due letti diversi, per potersi mostrare il reciproco nido. Lo fecero per 4 giorni, ogni mattina, spesso la notte. Poi venne giovedì e lei dovette rinunciare alla mattina. In quel varco di impercettibile assenza si infilò il passato. In un minuscolo vuoto di presenza tornò su di loro la durezza dei lutti e dei rancori. Il tempo, la sua velocità li aveva illusi di aver ipnotizzato l’abitudine aspra alla distanza; ma i corpi, la loro frenesia hanno bisogno del tempo e della sua lentezza per trasformare un bonsai in baobab. E solo un baobab può dire ‘ti amo’.